Onorevoli Colleghi! - L'obesità è una malattia complessa dovuta a fattori genetici, ambientali e individuali con conseguente alterazione del bilancio energetico e accumulo eccessivo di tessuto adiposo nell'organismo.
      Diversi tipi di studio hanno dimostrato una chiara influenza genetica, responsabile dell'eccessivo accumulo di grasso in presenza di alta disponibilità di alimenti e di cronico sedentarismo. Esistono poi fattori individuali che possono contribuire all'eccessiva introduzione di cibo: si tratta solitamente di comportamenti impulsivi o compulsivi secondari a condizioni psicopatologiche. Anche alcuni farmaci possono, se utilizzati a lungo, facilitare l'insorgenza dell'obesità.
      In molti Paesi industrializzati la malattia colpisce fino a un terzo della popolazione adulta, con un'incidenza in aumento nell'età pediatrica. L'obesità, quindi, rappresenta l'epidemia del terzo millennio e, al contempo, la più comune patologia cronica del mondo occidentale.
      L'obesità costituisce un serio fattore di rischio per mortalità e per morbilità, sia di per sé (complicanze cardiovascolari e respiratorie) sia per le patologie ad essa frequentemente associate, quali diabete mellito, ipertensione arteriosa, iperlipidemia, calcolosi della colecisti, osteoartrosi. Negli Stati Uniti d'America (USA), nei primi tre mesi dell'anno in corso, le patologie associate all'obesità hanno provocato più decessi delle patologie neoplastiche.
      Accade, però, che l'obesità, anche se è stata riconosciuta come malattia cronica, nel nostro Paese rappresenta uno dei più

 

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trascurati problemi di salute pubblica, a partire dalla sua prevenzione primaria, secondaria e terziaria.
      Quasi un italiano su dieci è obeso e i più a rischio sono gli uomini, rispetto alle donne. È quanto emerge dall'indagine dell'Istituto nazionale di statistica multiscopo sulle famiglie. I dati relativi al 2002 evidenziano che il 9 per cento della popolazione italiana è obeso e che, all'opposto, appena il 3,9 per cento della popolazione adulta risulta sottopeso. Più si invecchia e più si tende a ingrassare. Nella fascia di età da 18 a 24 anni la percentuale di obesi è del 2 per cento, in quella da 45 a 54 anni sale al 12,4 per cento per raggiungere il massimo in quella da 55 a 64 anni, con il 14,4 per cento.
      In Italia ci sono circa 6 milioni di persone con obesità di vario grado, di cui circa un milione affette da forme gravi, definite tali quando si supera del 60 per cento l'indice di massa corporea normale. Ancora più allarmante è il dato della crescita costante in età pediatrica non solo del fenomeno obesità in sé, ma anche delle forme gravi o morbigene (cosiddetta «superobesità»), e in particolare, dell'obesità viscerale, che rappresenta anche in età pediatrica un fattore di rischio per la sindrome metabolica se associato a dislipidemia, ipertensione, iperglicemia e iperinsulinemia. La sindrome metabolica predispone a complicanze cardiovascolari precoci. Questi dati dimostrano che tale condizione è pari percentualmente a quella di Paesi con eguale livello di benessere, quali ad esempio gli USA.
      In questi Paesi, tuttavia, si è provveduto a creare le idonee condizioni sociali, lavorative e strutturali al fine di permettere un normale inserimento sociale dell'obeso, anche grave, mentre nel nostro Paese si può constatare un totale vuoto normativo.
      L'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) recentemente ha fissato i nuovi criteri che permettono di classificare l'obesità in base al BMI (Body mass index o indice di massa corporea, ottenibile dal rapporto tra peso e altezza elevata al quadrato): come limite superiore di normalità è stato fissato un valore di BMI di 24,9, mentre sono state definite obesità di I, II e III grado i valori di BMI rispettivamente compresi tra 30 e 34,9 e tra 35 e 39,9 e da 40 in su.
      Una recente sentenza della Corte di cassazione (n. 16251 del 19 agosto 2004, della sezione lavoro) ha anzitutto definito l'obesità una malattia invalidante; in più ha stabilito che non sono più vincolanti le tabelle - fissate dalla tabella di cui al decreto del Ministro della sanità 5 febbraio 1992, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 47 del 26 febbraio 1992 - usate per misurare il punteggio di invalidità, che attribuiscono una percentuale di handicap agli obesi che in nessun caso supera il 40 per cento (per avere l'assegno C di invalidità serve il 74 per cento). Ad avviso dei magistrati della Suprema Corte, invece, specie nelle forme gravi di accumulo adiposo, occorre valutare questa disfunzione in «maniera svincolata dai limiti specificati dalla richiamata tabella» e dare punti più elevati, superiori al 40 per cento, a chi ha un rapporto molto squilibrato tra altezza e peso corporeo.
      A questa decisione ha portato la vicenda di una donna, di un metro e mezzo di altezza per 130 chili, concentrati soprattutto sulle cosce. Proprio per le sue dimensioni, la signora aveva chiesto di essere dichiarata invalida al 74 per cento, ma l'allora Ministero del tesoro aveva bocciato la sua richiesta. Così la donna si era rivolta (senza successo) alla magistratura che per due volte - prima il tribunale e poi la corte di appello torinese - le aveva risposto che, nonostante la mole, non raggiungeva il punteggio necessario.

      Il successivo ricorso alla Cassazione ha fatto breccia tra i giudici che lo hanno accolto, nonostante il parere contrario espresso dalla procura che aveva, addirittura, chiesto l'«inammissibilità» del reclamo. In particolare, i supremi giudici hanno affermato che è vero che la tabella «include l'obesità nella fascia di invalidità dal 31 al 40 per cento», ma tale percentuale è calcolata in riferimento a persone che hanno un BMI compreso tra 35 e 40, che non tiene conto delle nuove forme di
 

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obesità o di quelle più gravi. La donna in questione, ad esempio, ha un BMI - ha calcolato la Suprema Corte - del 57,7 che, in base alle indicazioni ministeriali, «si ottiene dividendo il peso del soggetto per il quadrato della sua statura espressa in metri». Deve quindi concludersi - afferma la Cassazione - che una «situazione» come quella della ricorrente richiede un'indagine diretta ad acclarare il grado di invalidità, svincolata dai limiti specificati dalla citata tabella.
      In pratica, adesso, alle persone gravemente obese potrà essere riconosciuto un punteggio di handicap maggiore del 40 per cento dato che - per effetto di questa decisione della Suprema Corte - i periti chiamati a valutare il livello di obesità dovranno tenere presente non più solo la richiamata tabella, ormai inadeguata per misurare le nuove obesità, bensì la reale situazione «invalidante» di chi è afflitto da questa malattia.
      Alla luce di quanto esposto, quindi, il problema dell'obesità grave non può essere ignorato dall'amministrazione pubblica che deve tutelare comunque i cittadini che chiedono assistenza e tutela in una società che spesso non ne considera le esigenze e le effettive necessità. Non è possibile limitare il problema alla conflittualità medico-legale, ma occorre definire un quadro di tutela complessiva della patologia, dalla sua prevenzione primaria alla sua cura (prevenzione secondaria), alle sue conseguenze invalidanti (oggetto di interventi di prevenzione terziaria). L'obesità rappresenta una condizione di malattia sociale sommersa, con un impatto indiretto ma, in ogni modo, grave per la vita di relazione di quanti ne siano affetti, che non può essere ignorata dallo Stato.
      L'obeso vive, infatti, in uno stato di isolamento dovuto alla difficoltà di farsi accettare dagli altri e soprattutto all'impossibilità di fare quelle cose che rientrano nella quotidianità della vita, a causa della presenza indiscriminata di barriere architettoniche, funzionali e lavorative. In sintesi, egli vive in una condizione di diritti negati.
      Infatti di tali barriere si ignora persino l'esistenza fino a quando non ci si immedesima nelle problematiche della quotidianità di chi è gravemente obeso.
      Provate a immaginare i numerosi e gravi problemi concernenti l'abbigliamento, l'ambiente, gli arredi, lo spostamento, i trasporti o la socialità di chi pesa 150, 200 chili o ancora di più. Provate a immaginare di fare le scale, varcare porte strette, entrare in bagni impossibili, servirsi di ascensori, banche, metropolitane, autobus o aerei, salire in automobile o sui treni, sedersi al ristorante, in una mensa, al cinema o al teatro con tutte le poltrone larghe solo 40 centimetri. Provate a immaginare di dover essere trasportati in barella, di dover fare una risonanza magnetica e di non riuscire a entrare nella stessa o, semplicemente, di pesarsi quando tutte le bilance misurano al massimo 140 chilogrammi. Sino ad ora si è ignorato un insieme di disagi, anche gravissimi, che accompagnano e, spesso, discriminano gli obesi gravi. Anzi, queste persone sono trattate con scherno o compassione, quasi fossero essi stesse colpevoli dell'infermità occorsagli.
      È necessario, pertanto, prendere atto di ciò, anche se diventa difficile dare risposte in un Paese che non si è mai posto il problema e dove non esistono strutture globali o sociali che tutelano quanti sono affetti da obesità grave.
      La presente proposta di legge mira anzitutto a riconoscere l'obesità grave quale condizione oggettiva di handicap al fine di estendere la tutela prevista dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104, recante «Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate», anche agli obesi. La proposta di legge persegue, inoltre, gli obiettivi di incrementare lo studio delle cause di un eccessivo peso corporeo, di attivare meccanismi di verifica, specie nella scuola, per una corretta informazione e sulle metodiche preventive e di cura, di aiutare l'integrazione sociale e lavorativa dei soggetti che per il loro stato sono emarginati, di adeguare le strutture pubbliche o aperte al pubblico, con particolare riferimento alle
 

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strutture di diagnosi e cura generalmente non pronte a trattare pazienti obesi, in modo da permettere anche agli obesi gravi di sentirsi, come in realtà sono, persone normali.
      Si prevede, infine, in particolare la promozione, da parte del Ministero della salute, avvalendosi della collaborazione delle associazioni qualificate già operanti nel settore, di specifici programmi atti a migliorare le conoscenze di base e cliniche sull'obesità al fine di trovare soluzioni idonee preventive, di diagnosi precoce, di terapia e di riabilitazione per una corretta alimentazione e per l'igiene dei prodotti alimentari da parte dei consumatori.
 

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